Up è il contrario di down. Emanuela: “Questi ragazzi riempiono la vita”

Emanuela Rustici, 56 anni, mamma di Alessandro, con il marito Pietro e la figlia Beatrice, è una delle famiglie del 'Gruppo Up', associazione che si occupa delle persone con sindrome di Down e delle loro famiglie. 60 i soci tra Piacenza, Lodi, Brescia e Cremona.

Saluta con un sorriso, poi torna nella sua cameretta. “E’ una stella caduta dal cielo ma è stato ed è impegnativo”. Emanuela Rustici, 56 anni, impiegata comunale, parla così del ‘biondino di casa’, come chiama suo figlio, Alessandro, 14 anni, un ragazzo simpatico e gentile con la sindrome di Down. Strada facendo la madre di Alessandro e il padre, Pietro Tei, ragioniere informatico, hanno dovuto affrontare molti problemi. I più difficili, probabilmente, sono alle spalle, ma all’inizio è stata dura. “Desideravo un secondogenito, avevo 41 anni e si sa che, quando una donna è un po’ avanti con l’età, possono esserci dei rischi – racconta Emanuela -. Io e mio marito avremmo accettato qualunque situazione, è anche per questo che non ho voluto fare la diagnosi prenatale del bambino”. La gravidanza è andata bene. “E’ stata davvero meravigliosa, i miei esami erano perfetti”. Poi è arrivato Alessandro. “I primi otto giorni sono stati i più scioccanti. Eravamo soli e spaesati. mi sentivo coinvolta in qualcosa di più grande di me. Devo dire che mi ha aiutato la fede. Mi rivolgevo alla Madonna cosi’: mi darò da fare al massimo ma ti prego, dove non riuscirò io, mettici una mano tu. Penso che alcuni nodi siano stati sciolti oltre le nostre possibilità”. Da lassù sarà anche arrivato un aiuto ma, di certo, quaggiù i genitori hanno fatto la loro parte. “Dopo il primo colpo, ci siamo ripresi: Alessandro è stato accettato immediatamente e amato da subito. No, non c’è stato nessun rifiuto da parte nostra. Allo stesso tempo non sapevo da che parte cominciare per seguirlo nel modo più adeguato. Non mi sono ritrovata nel buio più totale, bisognava rimboccarsi le maniche e farsi consigliare, ma non c’era un punto di riferimento. Nei primi anni di vita di mio figlio temevo che venisse giudicato male dalla gente perché disabile. Mi ha sostenuto questo pensiero: se desideri che gli altri si rivolgano a lui con un sorriso e sia più facilmente amato, sorridi prima tu agli altri. Ora sono felice per tutti i sorrisi che riceve”.

Alessandro è cresciuto in un ambiente sereno, in una bella famiglia composta anche dalla sorella, Beatrice, 20 anni, fresca dei test di ingresso alla facoltà di Medicina. “Litigano come tutti i fratelli, ma si cercano e si adorano. Lei è un preziosissimo aiuto per noi”. Nel loro luminoso appartamento, che si affaccia su una stradina silenziosa e incantevole, c’è anche Tommy, un golden retriever giocherellone. “Per seguire mio figlio ho dovuto prendere il part-time. Il pomeriggio è dedicato quasi esclusivamente a lui. Da un paio d’anni è autonomo nella cura di sé, a tavola e fuori. Ma c’è voluto tanto tempo e un grande sforzo. A livello del linguaggio e didattico ha difficoltà pronunciate ma, per fortuna, è sano fisicamente”. Non è mai fermo. “Frequenta Futura, un luogo che ama: è davvero volenteroso, scopa, sposta le carriole piene di fieno per i cavalli e ha imparato ad andare al trotto; pratica il canottaggio tre volte la settimana: gioca al baskin; da qualche mese suona la batteria; da 4-5 anni fa il chierichetto. E’ molto inserito. Gli piace tantissimo cucinare: indossa il cappello e il camice da chef e si mette ai fornelli, mi aiuta a tagliare le verdure o altro. Dice che da adulto vuole fare il cuoco: penso che lo iscriveremo alla scuola alberghiera”. A settembre comincerà il terzo anno delle medie inferiori, ha un’insegnante di sostegno. “I suoi compagni di classe, sezione D della Campi, lo hanno accolto benissimo. Quando prende un bel voto o se la cava in un’interrogazione, lo applaudono. Gli stanno vicini nel momento dell’intervallo. Di contro, è lui che stimola i ragazzi della sua scuola, una ventina, con altre disabilità, li aiuta a contare, li incoraggia con una dolcezza che è emozionante. Ha una sensibilità immensa e una grande disponibilità verso gli altri: è fatto così. Nei nostri confronti è protettivo, attento ai nostri stati d’animo, ai nostri bisogni, oltre che essere molto buono. C’è anche da dire che questi ragazzi sono testoni: il mio ha un carattere dominante, è un ‘comandino’”. La questione del ‘dopo di noi’, di Alessandro quando i genitori non saranno più con lui, è, vista la loro età, lontana. “Non è un’ossessione, ma ci penso. Alessandro sarà in carico alla sorella. Il nostro obiettivo è, invece, che sia autonomo nella cura di sé e che possa esserlo nella società. Non so se potrà avere una sua famiglia o vivere da solo, forse non sarà impossibile. Ma abbiamo un esempio: Maria Bresciani”.

Emanuela e il marito sono soci cofondatori dell’associazione ‘Gruppo Up’ (up, ossia su, il contrario di down, giù), presieduta da Annalisa Sogni, che si occupa di persone con la sindrome di Down. “E’ nata, a marzo, a Piacenza, dall’idea del primario di Pediatria dell’ospedale di quella città, il dottor Giacomo Biasucci, insieme con due suoi pediatri (una genetista cremonese e un endocrinologo), un’infermiera e le famiglie – piacentine, lodigiane, bresciane e, come noi, cremonesi – che in questi anni si sono appoggiate a quel reparto. Scopo dell’associazione è dare un’occasione di confronto e di conforto, appunto, per le famiglie perché non si sentano sole. Sono una sessantina quelle che hanno aderito sinora, 6 le cremonesi e una ventina quelle che vorremmo coinvolgere. Uno degli obiettivi dell’associazione è far incontrare ragazzi con la sindrome di Down, sarebbe importante perché stanno bene tra loro”. Eppure la nostra città sembra molto sensibile a queste problematiche. “E’ vero, ci sono tante realtà, ma slegate, che supportano direttamente i ragazzi e non, come vorremmo fare noi, le famiglie. Nel nostro piccolo, abbiamo già una chat su cui ci scambiamo consigli e informazioni. La nostra intenzione è organizzare entro la fine dell’anno un convegno per farci conoscere e per poter mettere in sinergia, in un prossimo futuro, tutte le forze cittadine possibili: sanitarie, riabilitative, scolastiche, ludico-sportive, lavorative. Senza pretendere di impartire lezioni a nessuno, speriamo di diventare un punto di riferimento. Guardando al futuro di mio figlio, e, in particolare, alla questione del lavoro, avverto di aver bisogno di un supporto ma, nello stesso tempo, mi volto indietro e mi rendo conto di aver già fatto un pezzo di strada”. Altre mamme e altri papà, invece, sono all’inizio di quella strada, come Emanuela 14 anni fa, o l’hanno intrapresa, ma faticano ad andare avanti. “Cosa mi sento di dire loro? Di non scoraggiarsi: l’impegno è notevole ma le soddisfazioni ci sono, e anche sorprendenti. Questi sono ragazzi che riempiono la vita. Parlo per me: nostro figlio ci ha messi spesso in discussione, sia come singoli che come coppia. Di conseguenza ci ha migliorato come persone, siamo diventati più profondi, più maturi, più sereni. Come dire? Più attenti all’essenzialità delle cose”. Alessandro esce dalla sua cameretta per salutare. Indossa con orgoglio la maglia dell’Inter. “Ma l’abbiamo anche portato a vedere la Cremonese”. Il ‘biondino di casa’ conferma e sorride.

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