Noi traduttori di speranza e umanità accanto alla squadra preziosa dei Samartitan’s

Smontato l'ospedale da campo, per i Samaritan's il sindaco ha proposto la cittadinanza onoraria. E gli interpreti raccontano: "Da loro gioia e professionalità".
L’ospedale da campo dei Samaritan’s Purse è stato smontato lasciandosi dietro una lunga scia di emozioni e ricordi ancora freschi ma che saranno indelebili. Anche per Lorenza Stradiotti, 39 anni, casa a Cremona e cattedra di inglese al Polo Romani di Casalmaggiore, una delle interpreti, più di una trentina, che hanno collaborato con i medici, gli infermieri e il personale americani. “E’ stata un’esperienza veramente speciale, unica”.
L’insegnante è stata da subito al loro fianco nella lotta al coronavirus. “Era un giovedì, stavo passando, di ritorno dalle spese, davanti al Maggiore e ho visto che stavano allestendo le tende dei Samaritan’s. E’ stato in quel momento che mi sono detta: devo fare la mia parte per la mia città, per il mio ospedale e anche per mia sorella, che in ospedale ci lavora come operatrice sanitaria. Ero in ansia per lei, mi confidava: non ce la facciamo più, ci vorrebbe l’esercito. Come faranno a parlare?, mi sono chiesta. E così mi sono offerta ancor prima che cercassero gli interpreti scrivendo ai Samaritan’s, all’Azienda sanitaria e al Comune. Il mattino dopo mi hanno chiamato dal Comune e ho cominciato”. Lorenza conosce perfettamente l’inglese, ha varie esperienze professionali alle spalle, compresi i 4 anni in cui ha insegnato italiano negli Stati Uniti. “Un po’ di paura ce l’avevo, mi domandavo se stessi valutando bene i rischi, poi mi sono gettata”. A volte ha tradotto documenti e moduli, ma l’80 per cento della sua attività era comunicazione orale, come quella tra i tecnici dei Samaritan’s e del Maggiore. Ma la parte più delicata è stata andare nei reparti, fare da ponte tra i pazienti e i medici americani. “Ero vestita, protetta esattamente come loro: stivali di gomma, camice, doppio paio di guanti, cuffietta, casco con la visiera, occhiali, mascherina. Una tenuta impegnativa”.
Lorenza ha visto molto dolore e solitudine in quei luoghi vietati alle visite dei parenti dei ricoverati. “Traducevo le loro richieste più concrete: ‘Mi fa male; vorrei un bicchiere d’acqua; devo prendere la pastiglia? C’è un’altra coperta perché ho freddo?’. Facendo questo ho cercato, se così si può dire, di tradurre speranza, era impossibile essere lì senza trasmettere calore umano, essere lì dentro non poteva significare tradurre asetticamente ma consolare, scherzare, ridere, portare un po’ di sollievo. Ho avuto il grande privilegio, perché tale lo considero, di accarezzare una malata. Nel mio piccolo, mi sono sentita utile, tutto questo mi ha fatto bene all’anima”. L’ospedale da campo aveva anche un reparto di terapia intensiva. “Prima d’allora l’avevo visto solo una volta attraverso i vetri. Mi sono commossa per una donna che si chiamava come mia nonna. Un’altra mia mansione, toccante e difficile, era telefonare ai familiari dei degenti di terapia intensiva per aggiornali sulla loro situazione clinica. Un compito parecchio delicato. Così come, invece, era impagabile vedere lo sguardo di alcuni pazienti passare da serio a sorridente nel guardare le foto dei propri cari mandati sul telefonino o sentire in viva-voce i messaggi di amore e incoraggiamento che ricevano da loro anche se non potevano rispondere perché erano ancora intubati”. Lorenza e i suoi colleghi interpreti si sono ritrovati ad essere testimoni di una grande sofferenza umana e hanno prestato alcune parole per tentare di alleviarla. “Quando i malati si risvegliavano avevano bisogno di comunicare con i medici ma potevano parlare solo con gli occhi. Allora si cercavano canali di comunicazione alternativi: chiudere una volta gli occhi era un sì, due volte no. Ho visto gente sospesa tra la vita e la morte. E qualcuno che stava per morire durante un mio turno ma che poi si è ripreso. Miglioramenti che lasciavano a bocca aperta. E’ stato molto bello anche tradurre le preghiere dei Samaritan’s. Chiedevano prima ai pazienti se avrebbero gradito la loro preghiera, nessuno ha rifiutato. Era una cura aggiuntiva”.
E qui ci sono, ancor più in primo piano, i veri protagonisti del racconto di Lorenza: loro, i Samaritan’s. “Hanno una forte etica del lavoro, sono persone sempre sul pezzo, che anticipano i bisogni. Non hanno mai orari, li si chiamava anche di notte. Hanno una resistenza ammirevole. Io facevo tre turni di 12 ore e passavo il resto della settimana a riprendermi, loro non si stancavano mai. Niente pause. Tenevano questi ritmi tutti i giorni. Molti, nonostante la giovane età, hanno combattuto contro Ebola. Allo stesso tempo erano capaci di trovare nel lavoro allegrezza, gioia. Ecco, gioia e professionalità è, secondo me, l’identità dei Samaritan’s. I loro carpentieri hanno costruito comodini per i malati e gazebo per chi, in via di guarigione, poteva uscire all’aperto per una boccata d’ossigeno. Accanto al dolore di un’umanità ferita e prostrata che chiedeva aiuto, ci sono stati momenti di convivialità, normalità e anche di raccoglimento. La fede dei Samaritan’s è insita in ogni cosa che fanno. Abbiamo loro regalato, in segno di gratitudine per averci dato la possibilità di far parte di una squadra così preziosa, una bandiera italiana con tutte le firme di noi interpreti. Eravamo un bellissimo gruppo. Farò conoscere ai miei studenti, anche attraverso interviste, la storia dei Samaritan’s”. L’insegnante di inglese ci pensa un po’, poi risponde alle ultime domande: “Non era scontato che ce l’avrei fatta, ho acquisito una nuova consapevolezza di me stessa. Cosa mi lasciano questi due mesi e mezzo nell’ospedale da campo americano? La soddisfazione di aver portato il mio contributo in un momento difficile, di poter dire: c’ero anch’io, ho dato una mano. Anzi, qualche parola”.
Ingrid, la responsabile del personale che ha fatto la selezione della squadra di traduttori e interpreti, commenta: “La varietà culturale e professionale di queste persone, alcuni insegnanti, altri studenti di medicina, altri fisioterapisti, altri mediatori culturali, altri ministri di culto, ha arricchito il team apportando competenze non solo linguistiche e consentendo di servire Cremona con più facilità”.
