22 anni da insegnante e 15 da preside, Mozzi dalla pensione: “La forza di una scuola è essere comunità”
Roberta Mozzi, professoressa e dirigente scolastica di generazioni di cremonesi, è in pensione. “Cosa farò? Tornerò ad occuparmi di volontariato, di giovani”.
“Devo imparare a staccarmi, non è semplice. Ma ci riuscirò. C’è un tempo per ogni cosa, era venuto il tempo di lasciare e pensare a me stessa”. Dopo 22 anni come insegnante e 15 da preside (per un totale di quasi 40), dal primo settembre Roberta Mozzi, professoressa e dirigente scolastica di generazioni di cremonesi, è in pensione. “Cosa farò? Tornerò ad occuparmi di volontariato, di giovani”.
Dopo il diploma al Manin “scelto perché tra le materie non c’era disegno” e “dove Fausto Pirotti mi ha lasciato la sua impronta”, si è laureata in Lettere classiche all’Università di Pavia: “Eravamo in cinque cremonesi della mia classe”. Completati gli studi, è stata tentata dal giornalismo. “Mi sono iscritta ad alcuni corsi a Milano, ma alla fine ho dovuto scegliere e quella strada è rimasta un hobby, a cui, comunque, ho sempre tenuto tantissimo”. E così ha seguito le orme della madre, Caterina, insegnante (di lettere all’Itis) anche lei: “Il suo esempio è stato fondamentale”. Il primo incarico della figlia nell’86, come supplente, all’ex Albergoni di Crema. “Uno dei miei colleghi era Gian Carlo Corada. Ricordo che una mattina sono entrata nell’aula insegnanti rovistando nei cassetti e lui mi ha apostrofato: eh no, signorina, qui gli allievi non possono starci. Avevo 25 anni”. Tra il periodo all’ex Albergoni e quello al liceo scientifico Da Vinci, sempre di Crema, ha partecipato al concorso vincendolo e passando di ruolo. Per approdare, nel ’92, all’Anguissola, dov’è rimasta, insegnando italiano, latino e storia, sino al 2007. “Ho imparato tutto lì. C’era un grande affiatamento con gli altri professori, abbiamo vissuto insieme il periodo delle profonde trasformazioni dell’istituto e fatto nascere gli altri indirizzi. I legami tra noi sono ancora fortissimi”. Eppure l’Anguissola non era considerato il massimo come aspirazione. “Alcuni colleghi un po’ snob non lo volevano, ma non rimpiango quella scelta e mi sono trovata benissimo”. I suoi autori preferiti, per le lezioni di latino, erano “Lucrezio ed Orazio per la poesia, Seneca per la prosa. In quelle di italiano, ho riscoperto molte cose che al liceo si digeriscono male ma che, approfondendole, aprono nuovi orizzonti. Ad esempio, Manzoni e lo stesso Pascoli, che passava quasi per un poetucolo”. Dietro la cattedra non guastava un po’ di scaltrezza, capacità di capire gli interlocutori per entrare in sintonia e accendere la scintilla della cultura. “In certe classi era meglio parlare di Machiavelli, in altre di Tasso o Ariosto”.
Nel 2008 la svolta, anche se sempre nello stesso mondo: un altro concorso, anch’esso vinto, stavolta per diventare preside. “Ho cominciato, rimanendovi per tre anni, al Marazzi di Crema. Mi dicevano: è proprio sicura di andare in quell’istituto? Ma si vede che in queste cose sono fortunata e pure qui sono stata benissimo. Peppino Strada è stato un po’ il mio maestro”. Dopo il Marazzi, per 12 anni all’Itis Torriani, la sua ultima scuola. Ma avrebbe potuto tornare là dove, come allieva, tutto è cominciato: il Manin. “Ma ho lasciato perdere perché al classico studiava mia figlia, Martina”. E così l’Itis. “Un istituto complesso che nel 2017, dopo l’accorpamento con l’Apc, è diventato, con 1.800 iscritti, il più grande di Cremona. Sono arrivata in punta di piedi. Sono riuscita a costruire buone relazioni, anche in questo caso ho trovato persone che mi hanno dato una mano ad inserirmi. Penso di aver costruito un buono staff. La forza di una scuola è essere una comunità”. Da insegnante a preside, “due lavori diversi, è più difficile il secondo perché si viene giudicati di più, non solo dai ragazzi e dalle famiglie ma anche dai docenti. Insegnare ai miei tempi era più semplice, ora si è oberati dalla burocrazia. Gli insegnanti dovrebbero essere riconosciuti come status sociale, sono la categoria più sottopagata. Uno Stato che non investe sulla scuola è uno Stato che non investe sul proprio futuro e che, in questo senso, non è civile”. Rispetto al passato c’è un altro aspetto nuovo: “Il continuo intervento, anche a sproposito, dei genitori, il non accettare l’autorevolezza degli insegnanti. Con le famiglie ho sempre cercato di avere rapporti corretti e affrontare insieme le cose che non andavano”. E i loro figli? “Sono cambiati loro perché sono cambiati i tempi. Questa generazione non è fortunata, dobbiamo essere noi a far emergere i talenti, le passioni. Il berlusconismo ha seminato male, proposto esempi e disvalori che non sarà facile rimuovere. Ma ho fiducia nei giovani di oggi. Sono andata con loro a Palermo, a incontrare il figlio di Paolo Borsellino, o nei campi di concentramento, con i Viaggi della memoria, o, ancora, al Ponchielli, pieno in ogni posto per Liliana Segre. Ho visto, toccato con mano la loro sensibilità”. Il suo ultimo giorno di scuola è stato il 31 agosto, un giovedì. “Ho offerto un piccolo rinfresco al bar del Torriani. Ho cominciato il mio discorso piangendo, mi sono commossa, ma lo faccio spesso”, sorride.
E poi c’è l’altra grande passione di Roberta Mozzi, quella per la politica, una passione ereditata dal padre, Cesare, che lavorava all’Inps, mancato qualche anno fa. “Mi portava alle Feste nazionali dell’Unità, a Bologna o Modena. Anche questo, come l’insegnante o la preside, è stato un impegno, un’attività che ho fatto con spirito di servizio”. Di fianco al tavolino del bar del centro passano prima una professoressa, pochi istanti dopo una bidella. L’una e l’altra le dicono: “Preside, ci manca già”. Non solo a loro.